Tra il 29 e il 30 settembre 1975 si consumò un evento tanto drammatico quanto simbolico, in grado di rappresentare una cesura netta nella storia femminile italiana. Si tratta del Massacro del Circeo, che vide due giovani ragazze, Rosaria Lopez (19 anni) e Donatella Colasanti (17 anni), sequestrate e sottoposte a circa 36 ore di violenza e stupro da parte di 3 ragazzi: Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira. Rosaria non riuscì a salvarsi e venne uccisa, mentre Donatella si finse morta per poter scampare agli aggressori, riuscendo poi a fornire testimonianze che furono decisive per poter ricostruire l'accaduto con precisione.
La copertura mediatica degli abusi subiti dalle due ragazze si rivelò lo specchio di un sentire collettivo sulla questione di genere che, a distanza di mezzo secolo, continua a persistere. Gli aggressori, appartenenti a famiglie agiate di Roma, furono descritti come “pazzi” o “mostri”, figure patologiche ed eccezionali, così da deresponsabilizzarli e oscurare la dimensione sistemica della violenza. Parallelamente, le vittime furono accusate di aver abbandonato il “focolare” e di aver tradito le proprie virtù, legittimando stereotipi e alimentando una narrazione che tende a normalizzare la violenza e a ostacolare l’accesso alla giustizia.
Il Massacro del Circeo, anche e soprattutto grazie alla mobilitazione femminista, riuscì a entrare nella memoria collettiva della nazione, avviando un processo che portò, come principale risultato, a una ridefinizione giurisprudenziale del concetto di stupro. Fino ad allora, infatti, lo stupro era considerato non come un danno fisico subito dalla persona offesa, bensì come un’offesa morale. Tale impostazione rifletteva un sessismo strutturale che de-personificava la donna, privandola della propria individualità e riducendola a un ruolo relazionale: madre di, sorella di, moglie di, ma mai individuo a sé stante. Di conseguenza, la violenza sessuale non veniva riconosciuta come un’offesa alla donna in quanto persona, bensì come una lesione all’onore e alla morale del nucleo familiare di appartenenza.
I movimenti femministi si impegnarono duramente in una lotta contro il rilegare lo stupro alla sfera degli eventi "eccezionali", sottolineando quanto in realtà si trattasse del prodotto diretto di una dinamica di potere profondamente squilibrata. La coscientizzazione del pubblico italiano da parte delle associazioni femministe e dell’avvocata Tina Lagostena Bassi, in seguito a capo della delegazione ufficiale alla Conferenza di Pechino del 1995, portarono il tema della violenza di genere sull’agenda politica nazionale, internazionale ed europea. A questo proposito ricordiamo la riforma 66 del 1996, la quale mise in evidenza quanto i reati di violenza sessuale non dovessero essere considerati come un’offesa alla moralità pubblica o al cosiddetto buon costume, ma come una violazione di un bene fondamentale e inalienabile: la libertà personale. Si diede poi vita all’iniziativa Daphne, divenuta poi programma ed infine progetto, che ebbe soprattutto il merito di mettere in rete le organizzazioni che lavoravano con le vittime di violenza, raccogliere dati e scambiare buone prassi. Seguirono poi altri programmi di azione comunitaria, road maps e strategie sino ad arrivare alla Direttiva 2024/1385 sulla violenza domestica e la violenza contro le donne del 14 maggio 2024.
La memoria di Donatella, di Rosaria e di tutte le vittime che le hanno tristemente seguite non è soltanto un monito, ma un richiamo costante alla necessità di contrastare le radici culturali e sociali della violenza di genere. La loro storia ci ricorda che i progressi legislativi, pur fondamentali, non bastano se non accompagnati da un cambiamento profondo nelle narrazioni mediatiche e nei rapporti di potere che ancora oggi continuano a perpetuare disuguaglianze e ingiustizie.