mercoledì 4 gennaio 2012

Cenni sulla storia dell'emancipazione femminile in Italia


Dal 1800 ad ora sono stati fatti grandi e significativi passi in avanti nella storia dell’emancipazione femminile in Italia ma ancora molto c’è da fare in tutti i campi della vita e a tutti i livelli della società. Qui di seguito abbiamo cercato di tratteggiare, in modo deciso, ricordando i momenti fondamentali, l’emancipazione della figura della donna nel nostro paese.
In passato la donna era un accessorio del capofamiglia (padre o marito). Nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici. Le donne, se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro, perché ciò spettava al marito. Alle donne veniva ancora chiesta l’"autorizzazione maritale" per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, né potevano transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti. Tale autorizzazione era necessaria anche per ottenere la separazione legale. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.
Nel periodo Risorgimentale in Italia il dibattito sui diritti delle donne, la loro educazione ed emancipazione fu assai provinciale. Molti degli "illustri pensatori" del Risorgimento italiano si limitarono a ribadire la soggezione della donna. Secondo Gioberti: "La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé". Per Rosmini: "Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata". Secondo Filangieri spetta alla donna l’amministrazione della famiglia e della prole, mentre le funzioni civili spettano all’uomo. Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, riformato soltanto nel 1975. Anche per quanto riguardava i diritti politici, il dibattito in Italia era stato assai poco acceso. Le stesse donne attive sulla scena politica erano uno sparuto gruppo di eccezioni.
Nell’Italia unita le donne vennero quindi escluse dal godimento dei diritti politici. Nel 1966 la contessa di Belgioioso, patriota e letterata, scriveva in proposito: "quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo dagli uomini il riconoscimento formale delle loro uguaglianza formale, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. [...] Le donne che ambiscono a un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e abnegazione, contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi". Infatti, la Camera dei Deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’on. Morelli volta a modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne al pari degli "analfabeti, interdetti, detenuti in espiazione di pena e falliti" ed a concedere quindi alle donne tutti i diritti riconosciuti ai cittadini. Dopo la bocciatura delle legge, Mazzini scrisse al deputato:
"L’emancipazione della donna sancirebbe una grande verità base a tutte le altre, l’unità del genere umano, e assocerebbe nella ricerca del vero e del progresso comune una somma di facoltà e di forze, isterilite da quella inferiorità che dimezza l’anima. Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia [la monarchia] è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù".
Nonostante Anna Maria Mozzoni avesse fondato nel 1879 una Lega promotrice degli interessi femminili - che si batteva per il diritto di voto alle donne -, le prime femministe italiane si interessarono molto di più delle questioni sociali, anche per influenza del neonato Partito Socialista.
La condizione socioeconomica delle donne fra fine ‘800 e primi del ‘900 era di drammatica disparità. I dati su cui basare le ricerche sono scarsi perché il lavoro femminile difficilmente veniva riconosciuto come tale: quasi tutte le donne occupate nell’agricoltura non venivano riconosciute come lavoratrici, a meno che non fossero titolari di una proprietà o di un contratto di affitto. In ogni caso lo stipendio delle lavoratrici era in genere poco più della metà di quello dei lavoratori di sesso maschile. Poiché anche il lavoro dei bambini era assai diffuso, e sottopagato, prima della prima guerra mondiale furono emanate alcune leggi per tutelare "donne e fanciulli", quali soggetti deboli e sfruttati. I salari più bassi delle donne venivano percepiti dagli altri lavoratori come una forma di concorrenza sleale, e quindi le prime proposte di legge cercavano di garantire un minimo salariale alle lavoratrici, anche per "mantenere sul mercato" la manodopera maschile. La legge sul lavoro femminile del 1902 finì per limitare ancora una volta i diritti delle donne: se da un lato essa concedeva quattro settimane di riposo - non pagato - alle puerpere, dall’altro vietava l’impiego di lavoratrici in alcuni lavori ritenuti "pericolosi". I lavori "pericolosi" contenuti nel decreto attuativo erano in realtà lavori ideologicamente ritenuti incompatibili con le attitudini femminili (attivazione di macchine, trattamenti di polveri e materiali "sconvenienti" o tali da richiedere una manipolazione complessa etc.). Lo Stato mostrava così di voler favorire al massimo il rientro delle donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale: la casa. D’altronde nell’enciclica papale Rerum Novarum, uscita in quegli anni, era scritto: "Certi lavori non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso". La legge del 1902 tradiva anche la speranza di ridurre il divario salariale con gli uomini: le lavoratrici fra i 16 e i 21 anni, venivano equiparate in capacità e abilità (e quindi in stipendio) ai lavoratori con meno di 15 anni. E questa era l’unica prescrizione in materia di stipendi.
Nel timore che potesse aumentare la concorrenza del lavoro femminile, i lavoratori erano fortemente contrari a qualunque norma in favore delle lavoratrici. Così anche il Partito Socialista e le sue organizzazioni sindacali non perorarono la causa della tutela del lavoro femminile, nonostante lo slogan socialista: "Le donne che lavorano come voi sono uomini".
Sul versante dei diritti civili e politici, erano nate, nel frattempo, l’Associazione nazionale per la donna a Roma nel 1897, l’Unione femminile nazionale a Milano nel 1899 e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane, aderente al Consiglio internazionale femminile.
Nel 1881 Anna Maria Mozzoni “il Comizio dei Comizi” sul suffragio femminile: "Se temeste che il suffragio alle donne spingesse a corsa vertiginosa il carro del progresso sulla via delle riforme sociali, calmatevi! Vi è chi provvede freni efficace: vi è il Quirinale, il Vaticano, Montecitorio e Palazzo Madama, vi è il pergamo e il confessionale, il catechismo nelle scuole e ... la democrazia opportunista!". Ed infatti tutti i progetti di legge per garantire il voto alle donne, o meglio ad alcune categorie di donne, venivano regolarmente bocciati (Minghetti 1861, Lanza 1871, Nicotera 1876-77, Depretis 1882 etc.).
Per quanto concerne l’istruzione, venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultano comunque iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali. Quattordici anni dopo le iscritte agli istituti di istruzione media (compresi gli istituti tecnici) saranno circa 100.000.
Il titolo di studio però non garantisce ancora l’accesso alle professioni. Nel 1881 infatti una sentenza del Tribunale annullò la decisione dell’Ordine degli avvocati di ammettere l’iscrizione di Lidia Poët, laureata in legge e procuratrice legale. Nel 1877 venne però approvata una legge che ammetteva le donne come testimoni negli atti di stato civile.
Nel 1903 venne convocato il primo Consiglio nazionale delle donne italiane, articolato in vari settori sui diritti sociali, economici, civili e politici. Negli anni seguenti nasceranno associazioni orientate al raggiungimento dei diritti civili e politici - come l’Alleanza Femminile e il Comitato nazionale pro suffragio - e associazioni legate a partiti e ideologie di altro tipo - come l’UDACI, Unione Donne di Azione Cattolica Italiana, che si batteva contro la laicizzazione della scuola - e l’Unione nazionale delle donne socialiste, che svolse interessanti inchieste sul lavoro femminile.
I socialisti però si scontrarono spesso con le femministe, accusate di essere portatrici di interessi borghesi. Bissolati affermò che "la proposta femminista ha lo scopo di attribuire maggiori diritti alla donna, entro la cerchia delle forme di proprietà e di famiglia borghese. Dunque il movimento femminista è un movimento conservatore. Quand’anche raggiungesse i suoi fini, non avrebbe ottenuto altro che interessare attivamente un maggior numero di persone alla conservazione degli attuali ordinamento sociali. All’opposto, la lotta di classe porta con sé una vera elevazione sociale della donna ... [Il femminismo] esiste in quanto non vede tale soluzione. Esso non è dunque altro che un fenomeno di incoscienza sociale". Dal lato femminista, Mozzoni invece sosteneva che: "L’emancipazione femminile è la suprema, la più vasta e radicale delle questioni sociali, capace di unire le donne di tutti i ceti per a causa della loro libertà e del loro riscatto".
Intanto nel 1906 la studiosa di pedagogia Maria Montessori si appellò alle donne italiane attraverso le pagine de "La Vita" affinché si iscrivessero alle liste elettorali. Un gruppo di studentesse affisse l’appello sui muri e molte donne tentarono quindi di iscriversi alle liste elettorali, così come fatto con successo negli USA. Sulla stampa si scatenò un dibattito fra i fautori del voto alle donne e i contrari. Le corti di appello delle varie città respinsero però tali iscrizioni, tranne la corte di Ancona, dov’era presidente Ludovico Mortara, ma anche questa sentenza venne annullata dalla Corte di Cassazione.
Nel frattempo però alcune donne riuscirono ad entrare in ambiti da cui fino ad allora erano escluse: nel 1907 Ernestina Prola fu la prima donna italiana ad ottenere la patente, nel 1908 Emma Strada si laureò in ingegneria, nel 1912 Teresa Labriola si iscrisse all’Albo degli Avvocati e Argentina Altobelli e Carlotta Chierici vennero elette al Consiglio Superiore del lavoro.
Nel 1908 si era tenuto a Roma, nel Campidoglio, il primo Congresso delle Donne Italiane, inaugurato dalla Regina Elena ed al quale erano presenti molte donne della nobiltà. Le risoluzioni del congresso auspicavano una rigorosa applicazione sull’obbligo scolastico, la fondazione di casse di assistenza e previdenza per la maternità e la richiesta di poter esercitare gli uffici tutelari (autorizzate dal marito se sposate). Tutte le mozioni vennero accettate a maggioranza, tranne una sull’insegnamento religioso, che determinò la scissione delle donne cattoliche e la creazione dell’UDACI, poi Unione Femminile Cattolica.
Nel 1909 l’Alleanza pro-suffragio lanciò un Manifesto di protesta alla riapertura del parlamento: "I deputati eletti da soli uomini, di qualsiasi partito essi siano, lasceranno ancora per troppo tempo sussistere quell’ingranaggio di leggi restrittive, di costumi medioevali, di giurisdizione antiquata, che inceppano la libera espansione delle forze femminili e ritardano il cammino del progresso civile. [...] Nell’Italia di Mazzini e Garibaldi, voi non dovete più oltre sopportare l’ingiuria di essere respinte dalle urne come gli idioti o i mentecatti. Venite dunque a unirvi al nostro pacifico esercito delle donne che vogliono il voto per il bene proprio, dei figli, dell’umanità!".
Nel 1910 il Comitato Pro-Suffragio chiese al Partito Socialista di pronunciarsi sulla questione del suffragio femminile. Turati si pronunciò contro il voto alle donne fintanto che "la pigra coscienza politica e di classe delle masse proletarie femminili" finisca con il rafforzare le forze conservatrici. Anna Kuliscioff, compagna di Turati, gli rispose dalle pagine di "Critica Sociale" difendendo il suffragio femminile. Al Congresso socialista del 1910 però Kuliscioff finì con il sostenere che "il proletariato femminile non può schierarsi col femminismo delle donne borghesi [...] Per la donna proletaria il suffragio politico è un’arma per la propria emancipazione economica". Su "Critica Sociale" però scrisse: "Non mi riesce di spiegarmi tanta rigidità verso il movimento femminile non proletario, mentre nei rapporti con i partiti politici borghesi, i socialisti hanno smussato così generosamente gli spigoli della loro intransigenza [...]. Se i socialisti fossero convinti fautori del suffragio universale, saluterebbero con gioia le suffragiste non proletarie come un coefficiente efficace alla vittoria, riservandosi di combattere qualunque proposta di legge che intendesse limitare il voto ad alcune categorie femminili privilegiate".
Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe concesso il voto agli analfabeti maschi, i deputati Mirabelli, Treves, Turati e Sonnino proposero un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti però si oppose strenuamente, definendolo "un salto nel buio". Secondo Giolitti il suffragio alle donne doveva essere concesso gradualmente, a partire dalle elezioni amministrative: le donne avrebbero potuto esercitare i diritti politici solo quando avessero esercitato effettivamente i diritti civili. Nominò quindi un’apposita commissione per la riforma giuridica del Codice Civile, rimandando in pratica la questione sine die.
Con la Prima Guerra Mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini richiamati al fronte vennero occupati dalle donne, nei campi, ma soprattutto nelle fabbriche. Circolari ministeriali permisero infatti l’uso di manodopera femminile fino all’80% del personale nell’industria meccanica e in quella bellica (da cui le donne erano state escluse con la legge del 1902). Con la fine della guerra però, le donne, accusate di rubare lavoro ai reduci, persero questi posti di lavoro.
Nel dopoguerra riprese il dibattito sul voto alle donne. Il neonato Partito Popolare appoggiava il suffragio femminile. Secondo Don Sturzo infatti: "Noi che abbiamo nel nostro programma cristiano l’integrità e lo sviluppo dell’istituto familiare, sentiamo che a questo programma non si oppone, in alcun modo, la riforma del suffragio alla donna, che anzi è conseguente ad esso ogni riforma la quale tenda ad elevare al donna e a conferirle nella vita autorità, dignità e grandezza".
Nel 1919, venne abolita l’autorizzazione maritale - pur con notevoli limitazioni -, dando così alla donne almeno l’emancipazione giuridica. Il 6 settembre del 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile, con 174 voti favorevoli e 55 contrari. Le camere però vennero sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla. L’anno successivo di nuovo la legge venne approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni. La presidente del Comitato pro suffragio dichiarò: "La legge non è stata votata per paura dell’incognita che l’ingresso della donna nella vita politica rappresenta per tutti i partiti. [...]. Nella mentalità dei dirigenti politici, il suffragio femminile deve essere un servizio calcolato e ben sicuro".
Nel marzo del 1922, Modigliani presentò una semplice proposta di legge, il cui articolo unico recitava: "Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne". Tale proposta, ancora una volta, non poté essere discussa ed in ottobre vi fu la Marcia su Roma.
Il fascismo in verità concesse il diritto di voto passivo ad alcune categorie donne per le sole elezioni amministrative. Mussolini stesso, intervenendo al congresso dell’Alleanza internazionale pro suffragio aveva detto che il fascismo aveva intenzione di concedere il voto a parecchie categorie di donne. La legge Acerbo (ironicamente chiamata del "voto alle signore") concedeva infatti il voto alle decorate, alle madri di caduti, a coloro che esercitassero la patria potestà, che avessero conseguito il diploma elementare, che sapessero leggere e scrivere e pagassero tasse comunali pari ad almeno 40 lire annue.
Il fascismo però subito dopo abolì quelle stesse elezioni amministrative a cui aveva ammesso le donne. L’Associazione per la donna fu sciolta, mentre la nuova presidente del Consiglio nazionale delle donne italiane fu nominata da Mussolini, segnando così la fine dell’associazione. L’Unione femminile nazionale rimase in vita a lungo, anche se priva di significato politico. Sopravvisse insomma soltanto l’Unione femminile cattolica, allineata al fascismo e al ruolo di subordinazione della donna ribadito dal papa nell’Enciclica Casti Connubi, dove fra l’altro auspicava: "Da una parte al superiorità del marito sopra la moglie e i figli, dall’altro la pronta soggezione e ubbidienza della moglie, non per forza ma quale raccomandata dall’apostolo".
Nel frattempo il fascismo inaugurava una sua politica sul tema dei diritti delle donne. Le donne vennero spinta, per quanto possibile, entro le mura domestiche, secondo lo slogan: "la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo", scritto sui quaderni delle Piccole Italiane. Le donne prolifiche venivano insignite di apposite medaglie. L’educazione demografica e il controllo delle nascite era formalmente vietato dal Codice Rocco che lo considerava un "attentato all’integrità della stirpe".
Per quanto riguarda il lavoro, i salari delle donne vennero fissati per legge alla metà di quelli corrispondenti degli uomini. Inaugurando una strategia che poi sarebbe stata ripresa per la politica razziale, l’offensiva cominciò nella scuola, dove fu formalmente vietato alle donne di insegnare lettere e filosofia nei licei e alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie; inoltre fu vietato loro di essere presidi di istituti, mentre le tasse scolastiche delle studentesse vennero raddoppiate. Nel pubblico impiego le assunzioni di donne furono fortemente limitate, escludendole dai bandi di concorso e concedendo loro un numero di posti limitato (in genere il 10%). Furono inoltre vietate loro la carriera e tutta una serie di posizioni prestigiose all’interno della pubblica amministrazione. Anche la pubblicistica fascista tendeva a dissuadere le donne lavoratrici ridicolizzandole. Nel libro "Politica della Famiglia" del teorico fascista Loffredo, si legge: "La donna deve ritornare sotto al sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito; sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica" per far questo consiglia agli Stati di vietare l’istruzione professionale delle donne, e di concedere soltanto quell’istruzione che ne faccia "un’eccellente madre di famiglia e padrona di casa".
Il Codice di Famiglia era già abbastanza retrivo, ma venne lo stesso inasprito dal fascismo: le donne vennero poste in uno stato di totale sudditanza di fronte al marito che poteva decidere autonomamente il luogo di residenza ed al quale le donne devono eterna fedeltà, anche in caso di separazione. Sul piano economico tutti i beni appartenevano al marito, ed in caso di morte venivano ereditati dai figli, mentre alla donna spettava solo l’usufrutto.
Il nuovo Codice Penale confermò tutte le norme contrarie alle donne, aggiungendo inoltre l’art. 587 che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia (il cosiddetto "delitto d’onore").
Le donne condannate per antifascismo durante il ventennio sono poche, ma le partigiane furono tutt’altro che poche. Secondo il CNL-Alta Italia le donne aderenti alla Resistenza furono: 75.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa, 35.000 partigiane, 4563 tra arrestate torturate e condannate, 623 fucilate e cadute, 2750 deportate, 512 Commissarie di guerra, 15 decorate con Medaglia d’Oro. Se si pensa che il numero complessivo dei partigiani è valutato in circa 200.000 persone, si può vedere che le donne rappresentarono circa il 20% di essi (ma la percentuale è assai più alta fra i fiancheggiatori del movimento); fra i caduti e i fucilati invece il loro numero delle donne è nettamente inferiore (circa l’1%), perché i combattimenti di prima linea, così come le fucilazioni, coinvolgevano raramente le donne, tenute la riparo dai loro commilitoni maschi.
Il 1 febbraio del 1945, su proposta di Togliatti e De Gasperi venne infine concesso il voto alle donne. La Costituzione garantiva l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e il Codice Penale. Per un soffio l’indissolubilità del matrimonio non fu iscritta nella Costituzione stessa, grazie all’emendamento di un deputato saragattiano.
Nel 1959 uscì il libro di Gabriella Parca Le italiane si confessano suscitando un vero scandalo. Per la prima volta donne di ogni strato sociale confessavano i rapporti con l’altro sesso, i ricatti subiti, le prevaricazioni, ma anche i diffusi pregiudizi. Scrisse Zavattini nella prefazione al libro: "L’Italia è ancora un grande harem".
L’emancipazione comunque andava avanti, anche se a piccoli passi, spesso ambigui. Nel 1951 viene nominata la prima donna in un governo (la democristiana Angela Cingolani, sottosegretaria all’Industria e al Commercio). Nel 1958 viene approvata la legge Merlin, che abolisce lo sfruttamento statale della prostituzione e la minorazione dei diritti delle prostitute. Nel 1959 nasce il Corpo di polizia femminile, con compiti sulle donne e i minori. Nel 1961 sono aperte alle donne la carriera nel corpo diplomatico e in magistratura.
Alla fine degli anni ‘60, sulla spinta anche degli avvenimenti europei e mondiali, nascono anche in Italia gruppi femministi da donne che si staccano dal movimento studentesco nel quale si sentivano emarginate e sfruttate dai loro compagni maschi, che cercavano di affidare loro compiti di segretaria o comunque subordinati ("Dall’angelo del focolare all’angelo del ciclostile").
All’inizio del 1970, nell’ambito di una seminario organizzato dal Partito Radicale, nasce il Movimento di liberazione della donna (MDL), il quale, contrariamente ai suoi omologhi all’estero, ammette fra i suoi aderenti anche uomini. Nel documento costitutivo si propone di informare sui mezzi anticoncezionali anche nelle scuole e ottenere la loro distribuzione gratuita, liberalizzare e legalizzare l’aborto, eliminare nelle scuole i programmi differenziati fra i sessi (educazione domestica e tecnica), socializzare i servizi che gravano sulle spalle delle donne sotto forma di lavoro domestico, creazione di asili-nido, improntati ad una visione antiautoritaria. I mezzi per raggiungere tali obiettivi sono anche le azioni di disobbedienza civile.
Parallelamente all’MDL si costituisce nel settembre del 1973 il Centro di Informazione Sterilizzazione e Aborto (CISA) per iniziativa di Adele Faccio, federato anch’esso al Partito Radicale.
Nel 1974 parte la prima raccolta di firme per un referendum abrogativo che avrebbe legalizzato l’aborto, ma non vengono raggiunte le 500.0000 firme necessarie. Nel 1975 viene arrestato Giorgio Conciani per aver organizzato una clinica clandestina per gli aborti a Firenze. Gianfranco Spadaccia, segretario del PR, Adele Faccio e Emma Bonino del CISA si dichiarano corresponsabili e vengono arrestati nei mesi seguenti. Nella primavera del 1975 (anche grazie all’appoggio de "L’Espresso") vengono raccolte oltre 800.000 firme su un nuovo referendum abrogativo sull’aborto. Prima che i cittadini venissero chiamati a votare il referendum, il Parlamento approva nel 1977 una legge sulla legalizzazione dell’aborto.
Frattanto nel 1970 era stato concesso il divorzio (vittoria ribadita con la vittoria dei no al referendum promosso nel 1974 dai clericali che ne chiedevano l’abolizione); nel 1975 era stato infine riformato il diritto di famiglia, garantendo la parità legale fra i coniugi e la possibilità della comunione dei beni.
La società italiana era notevolmente cambiata e le leggi avevano in parte sancito tale cambiamento. Rimanevano però tracce della passata discriminazione in leggi quali quella che comprendeva fra i "delitti contro la morale" anche lo stupro e l’incesto, legge eliminata soltanto recentemente. All’inizio del nuovo secolo è caduto anche l’ultimo baluardo di esclusione delle donne in ambito statale, quello militare.