Approfondimento di Concita De Gregorio - La Repubblica.
QUI non si tratta della casalinga di Voghera o della ragazza del Sud che la famiglia costringe a casa dopo la licenza media. Qui si tratta di "upper class", di gioventù ricca e colta, di ragazzi e di ragazze che possono scegliere cosa studiare e dove studiare, che provengono da famiglie ad alto reddito e che sono figli della classe "professionale, dirigente, innovativa" di una città come Milano. La punta avanzata dell'evoluzione sociale, dunque. Eppure anche lì, anche in quel contesto che dovrebbe essere immune dalle disparità di sesso, le donne guadagnano meno degli uomini. Lavorano, non stanno a casa, sono autonome nella vita come nel reddito, ma la loro busta paga è inevitabilmente più leggera di quella del partner, dell'amico o del fratello.
Mediamente più leggera del 37 per cento. Anche se a scuola hanno sempre ottenuto i voti migliori, anche se si sono laureate in tempi più stretti, anche se al liceo sono risultate delle autentiche schegge in matematica e fisica. Perché non è vero che le ragazze brillano solo nelle materie letterarie: surclassano i compagni anche in quelle tecniche.
Eppure niente ferma la disparità salariale fra maschi e femmine: non c'è reddito, provenienza sociale o territoriale che tenga. Il fatto nuovo è che spesso - dietro ai risultati ottenuti in questi contesti privilegiati - ci sono scelte effettuate dalle donne stesse. E' quanto indica lo studio "Il gap salariale nella transizione tra scuola e lavoro" pubblicato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti.
Una lettura che parte da un presupposto finora poco considerato: le donne guadagnano di meno perché al momento della scelta della facoltà, si orientano verso studi umanistico-letterari destinati a condurle verso professioni scarsamente retribuite. E lo fanno di testa loro, nonostante i brillanti risultati scolastici permetterebbero alle ragazze di "volare" anche in indirizzi considerati tipicamente maschili (e legati a professioni più redditizie) come ingegneria, economia o matematica. Una decisione non da poco, visto che l'analisi della Fondazione Debenedetti dimostra che la scelta del percorso universitario spiega per un terzo la differenza di reddito fra uomini e donne.
Lo studio - che sarà presentato nella Conferenza europea "Le diverse dimensioni della discriminazione" in calendario a Trani per il 9 giugno (chi volesse iscriversi può farlo all'indirizzo mail info@frdb.org) - considera volutamente un campione di laureati molto ben caratterizzato. Sono stati presi in considerazione i ragazzi diplomati in 13 licei classici e scientifici di Milano tra il 1985 e il 2005 che hanno poi proseguito gli studi nelle 5 Università cittadine. Trentamila brillanti giovani provenienti da brillanti famiglie, oggi già inseriti nel mercato del lavoro e immuni dai freni che stanno agendo sull'"ascensore sociale" italiano (quello che fino a poco tempo fa permetteva ai figli di raggiungere condizioni di vita, studio, reddito e lavoro migliori rispetto a quelle dei genitori). Loro sul tetto ci sono già.
Le conclusioni positive dell'indagine, va detto, sono almeno due: il sesso non pesa in termini di occupazione perché la differenza fra maschi occupati e donne occupate non va oltre il 7 per cento. Né le donne decidono come proseguire gli studi in base alle prospettive di un futuro matrimonio "ricco". Si potrebbe presumere - considera il rapporto - che gli uomini più spinti alla carriera e all'inseguimento di un alto reddito, pensino sia meglio sposare una donna che, avendo scelto studi umanistici, sia più propensa a professioni meno competitive e meno pagate e più interessata alla gestione della famiglia. Ma, almeno fra i ragazzi e le ragazze della Milano "bene", guardando ai numeri, ciò non sembra avvenire.
Ciò che avviene, invece, è che con costanza sorprendente le donne rifuggono dalle facoltà legate a lavori a più alto reddito. Lo studio le indica con chiarezza: medicina, ingegneria, economia, matematica. Medicina a parte (dove le quote femminili e maschili si eguagliano) le facoltà più "redditizie" sono state scelte dal 65 per cento dei ragazzi del campione e da solo il 20 per cento delle ragazze. Gli indirizzi legati alle professioni peggio remunerate (Scienze dell'educazione, Scienze umanistiche, Architettura e design) sono stati invece scelti dal 35 per cento delle femmine e dal 10 per cento dei maschi.
Cosa c'è dietro queste decisioni? Lo studio individua due possibili motivazioni, anche se difficilmente misurabili perché legate a caratteristiche individuali. Le donne sono meno competitive dei maschi (il livello di competitività è stimato tenendo conto della propensione ad esercitare attività sportive), sono - in genere - più attente al prossimo (attitudine rilevata in base alla partecipazione ad attività di volontariato) e comunque scarsamente votate alla ricerca di un lavoro a tutti i costi ben pagato.
Pesa il ruolo che si sentono in dovere di coprire nella famiglia e quindi - ancora una volta - pesa la mancanza di infrastrutture e welfare che permettano alle donne di dedicarsi al lavoro senza preoccuparsi dei bambini e degli anziani. Pesa, probabilmente, anche un gap di autostima.
Comunque sia - precisano gli autori del rapporto - colpisce come il "gap salariale fra uomini e donne persista persino in un gruppo socio-economico relativamente benestante e istruito come quello dei licei milanesi". Se è così in quell'ambiente protetto, figuriamoci nel resto del Paese. Lì il problema sta a monte: le donne che lavorano sono ancora troppo poche e gli ultimi dati sulla disoccupazione femminile rilevati dall'Istat fanno capire che le nuove generazioni sono più penalizzate delle vecchie (al Sud è disoccupato quasi il 52 per cento delle ragazze fra i 15 e i 24 anni). Quando poi lavorano le donne italiane, a parità di ruolo e di orario guadagnano mediamente il 16,4 per cento in meno rispetto ai colleghi maschi.
Ora gli allarmi s'inseguono e s'inseguono anche le promesse: nell'ultima relazione annuale la Banca d'Italia ha ribadito che la ripresa del Paese deve necessariamente passare attraverso la soluzione della questione femminile. E il governo Monti, pochi giorni fa, si è impegnato a far sì che entro il 2016 non esista più, a parità di ruolo, alcuna disparità di stipendio.